Giovane professionista di successo, titolare di una piccola, ma nota società di consulenza, con la fedina penale immacolata e neanche una multa non pagata da nascondere. Ufficialmente, si presentava così Marco Gallo, insospettabile sicario 32enne di Falerna, in provincia di Catanzaro, incastrato dagli investigatori per una serie di omicidi, incluso quello dell’avvocato Francesco Pagliuso.
Un delitto eccellente e che a Lamezia Terme ha fatto rumore. Giovane rampante penalista, l’avvocato 43enne è stato ucciso nella notte fra il 9 e il 10 agosto del 2016 da un killer che, beffando telecamere e sistemi d’allarme, lo ha atteso nel giardino di casa sua per poi freddarlo con diversi colpi di pistola ancor prima che uscisse dall’auto. Quell’uomo – hanno svelato oggi gli inquirenti – era Marco Gallo, irreprensibile colletto bianco di giorno, spietato sicario al soldo della ‘ndrangheta di notte. A lui e alle sue abilità di killer è stata affidata – dicono gli inquirenti – l’esecuzione della sentenza di morte emessa dagli uomini del clan Scalise, un tempo difesi dallo stesso avvocato Pagliuso.
Per anni legale di fiducia della nota famiglia di ‘ndrangheta del lametino, Pagliuso è rimasto stritolato nella faida scoppiata fra gli Scalise e i Mezzatesta, un tempo vicini al clan del lametino, diventati nel giro di pochi mesi feroci nemici. Per l’avvocato, fatale si è rivelato l’aver assunto la difesa dell’ex vigile urbano Domenico Mezzatesta e del figlio Giovanni, autori del duplice omicidio di Francesco Iannazzo e Giovanni Vescio, considerati organici agli Scalise. Un delitto ripreso interamente dalle telecamere del bar in cui è avvenuto, costato l’immediato arresto al più giovane dei due e quasi un anno di latitanza al padre, che ha segnato l’inizio di una scia di sangue conclusasi solo con l’omicidio del legale.
Nei mesi successivi all’omicidio di Iannazzo e Vescio, sono caduti in diversi agguati Daniele Scalise, figlio del boss Pino e Luigi Aiello, uomo di fiducia di Mezzatesta, all’epoca latitante. Un delitto su cui Pagliuso ha fatto leva per convincere l’uomo a costituirsi anche per sottrarsi alla vendetta degli Scalise, determinati a eliminare fisicamente tutti i soggetti che consideravano coinvolti o responsabili di quella faida. Allo scopo – aveva rivelato spaventato il legale a familiari e collaboratori pochi mesi prima del suo omicidio – era stata stilata anche una “lista nera” in cui compariva anche il suo nome, insieme a quello di Aiello e Mezzatesta. Un ordine di morte quasi pedissequamente rispettato e probabilmente – sospettano gli inquirenti – affidato al sicario Marco Gallo.
Il primo a cadere è stato Aiello. Qualche mese dopo, è morto nel corso di un agguato in pieno giorno Gregorio Mezzatesta, fratello di Domenico e vittima di una classica vendetta trasversale. Dopo è toccato a Pagliuso, che nel frattempo aveva strappato in Cassazione l’annullamento dell’ergastolo comminato ai Mezzatesta per l’omicidio di Vescio e Iannazzo. Una vittoria giudiziaria – aveva confidato alla sorella e alle sue più strette collaboratrici – che lo preoccupava molto. Pagliuso sapeva di essere ancora nel mirino degli Scalise.
Nei mesi precedenti, più volte la recinzione della sua villa era stata tagliata e l’impianto d’allarme sabotato. L’avvocato aveva paura, ma si sforzava di fare una vita normale. A spezzarla definitivamente in una notte d’agosto – ne sono sicuri gli inquirenti – è stato Marco Gallo, insospettabile sicario con il ghiaccio nelle vene, in grado di preparare con precisione scientifica i propri ‘lavori’. Per uccidere l’avvocato Pagliuso, per settimane si aggirato in tenuta da jogging attorno alla sua villa per studiare le abitudini del legale e i punti d’accesso della villa. Un paio di volte, hanno ricostruito gli inquirenti, ha desistito perché Pagliuso non era da solo ed ha aspettato con pazienza l’occasione buona. Un modus operandi tipico di tutti gli omicidi che ha firmato.
Ha fatto un solo errore. Non ha distrutto la moto utilizzata per l’omicidio Mezzatesta e che gli investigatori avevano individuato grazie ad un certosino lavoro di analisi su migliaia di filmati che avevano registrato, anche per pochi secondi, il percorso del killer. Così i carabinieri sono arrivati al sicario, per questo finito in carcere, e in seguito individuato dagli uomini della Squadra mobile di Catanzaro come autore anche di un secondo omicidio, quello del fruttivendolo Francesco Berlingeri. In quell’occasione è finita in manette anche la moglie, Federica Guerrise.
Trent’anni appena, di professione infermiera, la donna – hanno scoperto inquirenti e investigatori è stata la fondamentale spalla di Gallo non solo nella preparazione dell’agguato – è stata lei a curarne la logistica -, ma anche nell’esecuzione. Quel giorno Guerrise si è piazzata di fronte al negozio di ortofrutta di Berlingeri, con il telefono in mano e pronta ad avvertire il marito dell’arrivo del fruttivendolo. L’uomo ha fatto appena in tempo a parcheggiare. Immediatamente dal telefono della giovane infermiera è partita una chiamata e meno di due minuti dopo, un sicario a bordo di una moto enduro ha sparato quattro colpi che hanno raggiunto il fruttivendolo alla testa. Un’azione di fuoco quasi da film, realizzata con precisione e cinica freddezza, che il killer ha portato a termine nonostante la presenza di un bambino, il nipote undicenne di Berlingeri, accanto alla vittima. Tutti elementi che hanno aiutato gli inquirenti a tracciare il profilo di Marco Gallo e della compagna.
Ufficialmente, una coppia normale, con una vita normale, e professioni regolari. Perito tecnico e consulente finanziario, proprietario di una società di consulenza lui, infermiera lei, per vicini e conoscenti i coniugi erano persone affabili, ma riservate. Nessuna frequentazione con pregiudicati o personaggi anche solo chiacchierati, orari ufficialmente regolari, una bella casa a Falerna, piccolo centro costiero del catanzarese. Di lui, si conosceva la passione per le moto e le armi e l’abitudine a frequentare il poligono di tiro. Di lei, nulla di più del suo impiego in una clinica privata. Non agivano per vendetta o motivi personali, spiegano gli inquirenti, ma solo ed esclusivamente per denaro. Da quando li hanno arrestati, nessuno di loro ha mai proferito parola. Di fronte a inquirenti e investigatori, si sono chiusi in un silenzio granitico, gelido come la spietata efficienza delle loro azioni di fuoco.